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LA FILOSOFIA DI KAROL WOJTYLA: UNA TERAPIA PER IL NOSTRO TEMPO

Riflessioni a margine di un incontro a San Pietro della Jenca

di Giuseppe Lalli

“In mezzo alla lotta Dio fa risuonare

  una campana immensa,

  per un Papa slavo

  Egli ha preparato un trono…

  Attenti, il papa slavo viene,

  un fratello del popolo.”

  Juliusz Slowacki (1803-1849)

Dopo tanti libri e libretti dedicati alla figura di Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla – Wadovice, 1920/Città del Vaticano, 2005), alcuni poco più che aneddotici, finalmente, nella cornice suggestiva di San Pietro della Jenca, in quel piccolo anfiteatro naturale dedicato agli incontri, alla fine della IX edizione del “Giardino Letterario”, appuntamento culturale che si ripete ogni anno nella stagione estiva, forse unico nella nostra regione per importanza dei temi trattati e per livello culturale dei relatori, è stato presentato un interessantissimo volume dal titolo IN DIFESA DELL’UMANO – La filosofia di Karol Wojtyla , D’Ettoris Editori. L’autore, Daniele Fazio, ha illustrato il suo libro con parole chiare, pacate e profonde, catturando per più di un’ora l’attenzione di un pubblico molto interessato e desideroso di ascoltare buona cultura e sana dottrina (e solo Dio sa quanto ce ne sia bisogno in questi nostri tempi di disorientamento morale).

Il testo tratta del pensiero filosofico di Karol Wojtyla, una pagina poco nota della biografia intellettuale del futuro papa, scritta allorché il suo pontificato era lontano, nell’ordine del tempo, dal suo orizzonte esistenziale, benché in essa siano già presenti concetti che troveranno compiuta attuazione nel suo magistero di pontefice, segnatamente, ma non  solo, nell’enciclica Fides et ratio (1998), scritto nel quale si affronta il rapporto, cruciale per il credente, tra la fede nella rivelazione divina e la fiducia nella ragione umana. Quale uomo? Quale natura? Quale morale? Che cosa si deve intendere con il concetto di ‘persona’? Sono queste le domande alle quali Karol Wojtyla, visitato dalla croce fin da giovane, ha cercato di dare una risposta convincente.

Wojtyla, come ci ricorda Giovanni Reale (1931-2014), è stato un pellegrino che ha battuto le tre strade che G.W. Hegel (1771-1831) considerava le massime espressioni dello spirito umano. Egli infatti è stato poeta, filosofo e teologo: una visione d’assieme che gli ha consentito di condurre un’indagine a tutto tondo sull’uomo, sulla scia di un percorso, intellettuale ed esistenziale – dal bello (estetica) al buono (etica) e infine a Dio (fede) –  che è stato lo stesso di un altro filosofo cristiano, Sören Kierkegaard (1813-1855). Il poeta diventa così profeta – come aveva già intuito Platone (428/427 a.C.-348/347 a.C.) – ed esprime col suo linguaggio, per immagini, come Dante nella Divina Commedia, ciò che il filosofo e il teologo chiariscono in concetti.

I testi teatrali del giovane studente universitario Karol consistono in una prosa scarna: un teatro cosiddetto “rapsodico” (che sarà anche una forma di resistenza: al nazismo prima e al comunismo dopo), un teatro filosofico, esistenziale, incentrato sulla parola, in cui più che la trama importa ciò che avviene nella coscienza. Il giovane Wojtyla non ama l’arte fine a sé stessa: per lui teatro e poesia sono chiamati a suscitare in chi ascolta o legge una tensione morale che possa comunicare qualcosa che faccia riflettere sulla vita e sul suo senso. Niente a che vedere con l’individuo gettato nel mondo e spaesato di cui parla una certa letteratura esistenzialistica contemporanea. Da qui un pensiero filosofico che, pur muovendo da una precisa visione antropologica, non teme di confrontarsi con spirito di apertura con le correnti culturali del proprio tempo, in primo luogo con quella fenomenologia che nel secolo scorso ha avuto in Edmund Husserl (1859-1938) e Max Scheler (1875-1928) i suoi massimi rappresentanti, corrente di pensiero conosciuta negli ambienti intellettuali polacchi già prima della seconda guerra mondiale. A tale proposito, per meglio comprendere la riflessione filosofica del futuro papa è opportuno chiarire il concetto di “fenomenologia”.

Si tratta essenzialmente di un metodo di ricerca che, al fine di conferire alla filosofia il carattere di una scienza rigorosa, si prefigge di tornare alle cose stesse, contro le costruzioni astratte e le soluzioni solo apparenti che si trasmettono acriticamente da una generazione all’altra. In tale prospettiva, si assumono, come punto di partenza della ricerca, delle verità indubitabili, delle evidenze incontestabili. Questo risultato verrà raggiunto attraverso la descrizione dei “fenomeni” che si annunciano e si presentano alla coscienza dopo che sono state messe tra parentesi tutte le persuasioni filosofiche e i risultati delle scienze in relazione al fatto o alla cosa oggetto della ricerca (il “fenomeno”, appunto). In altri termini, su tutto ciò che non è in sé evidente, bisogna sospendere il giudizio. Di questo metodo di indagine Wojtyla mostra di apprezzare la capacità di penetrare l’essenza delle cose, ma ne respinge la tendenza al soggettivismo (o idealismo che dir si voglia), vale a dire la tendenza a far coincidere la realtà col pensiero stesso (ciò che costituisce il grande errore che attraversa la filosofia moderna a partire da Cartesio e da Kant), e così tradendo la sua stessa finalità. La realtà che sta davanti al soggetto, infatti, affinché la ricerca metafisica abbia un fondamento ontologico, non può che esistere indipendentemente dal soggetto che la pensa: posizione, questa, che va sotto il nome di ‘realismo’, che è alla base dell’impostazione metafisica di Tommaso d’Aquino (1225-1274), eche Wojtyla condivide con Roman Ingarden (1893-1970), allievo di Husserl e illustre rappresentante della fenomenologia in Polonia.

Quello del giovane Wojtyla è un cammino analogo a quello compiuto da Edith Stein (1891-1942), la filosofa di origine ebrea allieva di Husserl e compagna di studi di Ingarden, appassionata fin da ragazza della verità, dapprima atea, poi convertitasi al cattolicesimo e fattasi suora  carmelitana con il nome di Teresa Benedetta della Croce (un itinerario umano e intellettuale davvero unico), morta ad Auschwitz e canonizzata dal papa polacco, che ben conosceva il suo pensiero, l’11 ottobre 1998; con la sola differenza che mentre la filosofa carmelitana, sviata nel soggettivismo, dovrà riconquistare la verità metafisica col sudore della fronte e l’umiltà dell’intelletto, il futuro papa deve solo rimanere coerente con la sua visione cristiana. Due sono le opere strettamente filosofiche di Karol Wojtyla: Amore e responsabilità (1960) e Persona e atto (1969), opere essenzialmente di filosofia morale, ma a cui non è estraneo un robusto e coerente impianto metafisico.

Amore e responsabilità, i cui temi sono anticipati nell’opera teatrale La bottega dell’orefice (1960), nasce all’interno dell’esperienza pastorale fatta dal futuro papa tra i giovani. In essa Wojtyla interpreta la decisiva esperienza dell’innamoramento e dell’amore coniugale servendosi del metodo della fenomenologia (sopra descritto), che rilegge alla luce dell’etica cristiana, per mostrare, in un’ottica che respinge sia il permissivismo che il rigorismo, in che modo è vero che il vissuto cristiano realizza in maniera compiuta il valore umano della sessualità. Ma è in Persona e atto che Karol Wojtyla dispiega tutto il suo potenziale filosofico. Nel saggio egli si prefigge di dare una esauriente interpretazione dell’uomo e del suo essere nel mondo, del significato del suo essere persona. La grande originalità dell’opera sta nel fatto che l’autore, pur appoggiando la sua interpretazione sia sul confronto con i classici del pensiero filosofico (Aristotele e Tommaso d’Aquino in primo luogo) che con la lezione della fenomenologia, chiede una verifica delle conclusioni a cui perviene al lettore stesso, alla luce delle riflessioni che è chiamato a fare sulle sue concrete esperienze di vita.

Sulla falsariga di questo illuminante saggio, chiediamoci ora, seguendo le riflessioni del brillante relatore dell’incontro, qual è il concetto di ‘persona’. Cominciamo col dire che ‘persona’ e ‘individuo’ non sono sinonimi.

La nozione di ‘persona’ ci viene dall’incontro, rivelatosi fecondo, tra la filosofia greca e il pensiero ispirato dalla fede cristiana. Pensiamo per attimo al mistero della Trinità, allo sforzo di pensatori cristiani come Agostino da Ippona (354-430) di presentare Dio come ‘uno’ ma in ‘tre’ persone; o all’idea, che tanto impegnò i teologi cristiani dei primi secoli, di un Cristo in cui sono presenti due ‘nature’, l’umana e la divina, in un’unica ‘persona’. Da questo approfondimento del mistero di Dio anche l’uomo riceve questo nomen dignitatis di ‘persona’.L’uomo non è un semplice individuo, ma, diversamente da tutti gli altri esseri, è un essere ragionevole. Non ha solo una vita biologica (nascere, nutrirsi, morire), è un essere che si fa domande di senso: vuol capire chi egli è, cerca la verità. L’essere umano è un essere relazionale, capace di aprirsi agli altri (e all’Altro per eccellenza che è Dio). Il termine ‘individuo’ fa pensare a qualcosa di separato, mentre l’uomo è naturalmente socievole, già a partire dal suoi bisogni fisiologici: il cucciolo dell’uomo, a differenza dei cuccioli degli altri esseri viventi, ha bisogno di essere accudito fin dalla nascita, deve essere allevato, per crescere ha bisogno per molto tempo dell’attenzione dei suoi genitori, dipende da altri.

Ma l’esperienza insegna che solo mangiare e bere non basta: c’è bisogno di rapportarsi con i suoi simili. L’uomo, che è pur sempre un animale sociale, non fa branco, ha bisogno di rapporti di amicizia, che per Aristotele è già una virtù, perché stare con gli altri aiuta a vivere meglio, ad essere più buoni. Altra componente della persona è la libertà: libertà di fare delle scelte. Ci chiediamo tuttavia: quali scelte? quale libertà? solo autodeterminazione? fare ciò che si vuole? Per rispondere a queste domande dobbiamo considerare chi è la persona e come essa tende a realizzarsi. La libertà, evidentemente, si deve in qualche modo “comporre” e deve essere innanzitutto libertà dal male, altrimenti l’essere umano non realizza la sua propria vocazione. Libertà di scelta, allora, ma scelta all’interno del bene, sapendo che ci sono varie sfumature di bene. Certamente l’uomo può fare anche il male, ma si tratterebbe di una libertà monca, giacché non si realizzerebbe.  Da ciò si evince che la libertà implica necessariamente una responsabilità. L’esperienza della relazione, dianzi richiamata, implica, a ben riflettere, una esigenza di verità. Dunque, libertà per gli altri e per la verità. Da qui l’altra caratteristica della persona: l’apertura alla trascendenza. Dagli altri all’Altro: l’essere umano avverte che da solo…non si basta. L’uomo realizza sé stesso quando incontra la verità.

Che cos’è la verità? Per i cristiani la risposta è facile, perché per essi è una persona, Gesù Cristo, ma per tutti equivale a chiedersi: come essere felici? Da qui il tema della morale. Alla base di ogni morale non può esserci un astratto principio del dovere. La domanda vera da farsi non è ‘che cosa devo fare? che richiama il discutibile “devo perché devo” di Immanuel Kant (1728-1808). La vera domanda è: che cosa devo fare per essere felice? In altri termini: come devo agire per realizzarmi come uomo? La morale non può essere un peso, un imperativo categorico che agisca senza una forte e convincente motivazione, senza qualcosa che abbia a che fare con la struttura profonda dell’essere umano. Solo così il percorso che la morale indica non è un peso ma un volano, per quanto difficile e impegnativo possa apparire.

Da qui l’altra domanda: chi è l’uomo?, ma non “chi” crediamo che sia sulla base di un filtro ideologico, ma chiè effettivamente, al di là che delle maschere e dei valori illusori che la società, volta per volta, può proporre. Alla luce di questa esigenza antropologica, ben si comprende l’incontro di Karol Wojtyla con quella “fenomenologia” che postula il ritorno alle cose stesse, come dianzi precisato. Il pensiero filosofico di Karol Wojtyla, fondato, come si è cercato di illustrare, su di un maturo e compiuto personalismo, può considerarsi una sorta di contro-rivoluzione antropologica, vale a dire una proposta alternativa a tutte quelle moderne forme di pensiero che a partire dal secolo scorso (ma le premesse erano già state poste nei secoli precedenti) hanno postulato un’idea di uomo fuorviante o incompleta.

La filosofia moderna, con Cartesio (1596-1650), ribaltando l’impostazione classica, mette al centro non la realtà, ma l’ “Io”, il “Soggetto” (da qui “soggettivismo”), che è così chiamato a filtrare e persino a giustificare il mondo che gli sta davanti: un “Io” che finisce per sostituirsi a Dio. Nascono da questo capovolgimento la tendenza a guardare la realtà attraverso lo specchio deformante delle “ideologie”, vecchie e nuove, contro cui Wojtyla ha combattuto per tutta la vita sia con le armi della fede che con quelle della cultura. I due grandi totalitarismi del Novecento, il nazismo e il comunismo, «le ideologie del male» – come ebbe a definirle una volta diventato pontefice -, che avevano promesso (il primo in nome della razza, il secondo in nome della classe) un paradiso in terra e hanno invece realizzato un inferno, il papa polacco riteneva  che fossero profondamente radicate nella storia del pensiero europeo: in un certo illuminismo, ma anche in «quella rivoluzione operata da Cartesio nel modo di fare la filosofia, che dopo di lui diventa una scienza del puro pensiero», come scrive in Memoria e identità, cosicché tutto ciò che esiste – sia il mondo creato che il Creatore – è solo un contenuto della coscienza e non esiste fuori di essa, secondo una logica che recide alla base la metafisica e la possibilità stessa dell’esistenza di un Dio trascendente. Ma se Dio è solo un prodotto del pensiero e non il Creatore fonte di determinazione di ciò che è bene e ciò che è male, sarà l’uomo a decidere, volta per volta, ciò che è buono e ciò che è cattivo.

Sta qui, nella negazione della natura umana come «dato reale», l’origine di quel relativismo etico che, respingendo ogni assoluto morale e asserendo che l’etica è sempre relativa alla situazione e al momento, nega alla radice una verità sull’uomo. Il pensiero di Karol Wojtyla può essere una efficace terapia anche nei confronti di altri mali del nostro tempo, quali:

– l’edonismo, che consiste nel vedere nel piacere l’unica bussola esistenziale;

– il nichilismo, che postula l’idea che non possiamo sapere nulla sul mondo e sul senso della vita, e tanto varrebbe rassegnarsi («L’essere è il nulla» sentenzia Martin Heidegger – 1889-1976 -).

– il materialismo, che è una filosofia di vita – se così si può dire – che si esprime con stili di vita gaudenti e vuoti (la Bologna «grassa e disperata» di cui parlava tanti anni fa il cardinale Biffi) e mode insensate; e che azzera ogni anelito spirituale, facendoci vedere il prossimo solo in funzione utilitaristica (Quanto conta quella persona ? In che modo me ne posso servire?) e la società come una montagna da scalare.

– il modernismo, malattia filosofica ma non meno reale, che conferisce alla tecnica un carattere antropologico, che afferma che l’uomo debba farsi da sé, senza guide morali che non derivino dalla propria ragione: un uomo che deve essere padrone della sua vita e della sua morte, una libertà senza limiti e senza responsabilità; e su tutto una patina di narcisismo: un “io” ipertrofico che tutto deve piegare al sogno di una felicità individuale.

È ciò che leggiamo nei libri e nei giornali, è lo spettacolo che va in onda ogni giorno a reti unificate, è la lezione che ci viene ammannita dalle cattedre universitarie e televisive, e che tanti politicanti ripetono come pappagalli: è il conformismo ipocrita che si ammanta di anticonformismo. È la pedagogia del “vietato vietare”, che tanti danni ha fatto nella scuola e nella convivenza civile. È la tendenza che si va facendo strada secondo la quale tutto ciò che la scienza permette, per questo solo fatto, è anche moralmente ammissibile (vedi utero in affitto e inseminazione artificiale cosiddetta “eterologa”). «In tale contesto – come scrive nel suo saggio Daniele Fazio riportando un’opinione del teologo Antonio Staglianòl’uomo è sempre meno riconoscibile come persona e sempre più come “il suo proprio esperimento”; l’uomo propriamente non è, bensì si fa». È forse la conseguenza ultima di quello scientismo che Giovanni Paolo II aveva intravisto e lucidamente denunciato nella Fides et ratio, la più filosofica delle sue encicliche. La stessa società occidentale – e segnatamente l’Europa – ha subìto una evoluzione sempre più in senso individualistico.

Non c’è da nasconderci dietro la foglia di fico dei programmi e degli egoismi nazionali: l’Europa diventerà una solida realtà politica a condizione che riscopra convintamente le sue radici cristiane e personalistiche. Il pensiero liberale, traguardo dello spirito europeo di valore universale, ha nella rivelazione giudeo-cristiana la sua radice più profonda. Una democrazia senza valori rischia di essere una scatola vuota, pronta ad essere sacrificata sull’altare dell’efficienza. Da ciò si deduce con chiarezza che la vera emergenza sociale del nostro tempo e in particolare del nostro Continente, come ha tenuto a sottolineare a più riprese il relatore dell’incontro, altro non è che una “questione antropologica”, vale a dire: quale uomo? quale natura? quale destino? Le stesse domande che il giovane Karol rivolgeva a sé stesso quando scriveva i testi teatrali. Nulla da spartire con l’esistenzialismo (che si presenta come un umanesimo ateo) di Jean Paul Sartre (1905-1980), per il quale “gli altri”, lungi dal rappresentare, come per il futuro papa, una dimensione nella quale la persona si realizza, sono l’inferno («L’inferno sono gli altri» fa dire il filosofo francese a un personaggio di una sua commedia).

Fuori da una prospettiva autenticamente umanistica, c’è solo il dominio della forza, una volontà di potenza in omaggio alla quale la storia dell’uomo e delle nazioni è solo una darwiniana “lotta per la sopravvivenza”: il forte ha la meglio sul debole, come avviene tra gli animali, che obbediscono al solo istinto e non anche a quella “ragione” che, a partire da Aristotele, è il tratto distintivo del genere umano (“L’uomo è un animale ragionevole”). Il destino della filosofia è quello di tornare ad Atene, ma passando per Gerusalemme, dando così compiuta risposta alle domande ineludibili che il pensiero greco ha saputo porre all’umanità. Bisogna riguadagnare la sorgente della verità con il sudore della fronte e andando contro corrente. Sollecitato alla fine da una domanda dello scrivente circa l’esigenza per i cristiani di porre in essere nuovi ed efficaci strumenti di presenza nelle nostre società secolarizzate, l’autore, dopo avere con grande realismo  rilevato che i cristiani sono ormai anche in Italia una minoranza culturale, per di più a volte tutt’altro che motivata – ciò che è alla base della loro irrilevanza politica e sociale -, ha richiamato la necessità di conoscere innanzitutto quella dottrina sociale della Chiesa, a cui tante energie intellettuali ha dedicato papa Wojtyla nel secolo scorso, che si fonda sulla Rivelazione, la quale alimenta l’idea, che diventa certezza culturale ed esistenziale, che Gesù Cristo è la chiave di volta per comprendere l’uomo e la sua storia, e può suggerire risposte compiute da proporre anche ai non credenti. In questa battaglia culturale, un compito importante spetta in ogni caso alla filosofia come bussola di orientamento nel gran mare delle parole e dei pensieri del nostro tempo: efficace antidoto contro errori e mistificazioni, oggi presenti in maniera ancor più insidiosa che ai tempi del giovane Wojtyla, e strumento insostituibile per pensare bene, che è  condizione essenziale per pensare – e fare – il bene.«La filosofia, dunque, per Wojtyla – come precisa Fazio nel suo saggio – si presenta come un aiuto necessario…quale apertura intellettuale alla verità – e per comunicare la verità del Vangelo a chi si ferma solo ai limiti della razionalità».

Forse nessun pensatore contemporaneo ha saputo al pari di Karol Wojtyla realizzare, alla luce della fede cristiana, una così chiara e convincente reinterpretazione filosofica e teologica. Siamo non solo in presenza di una chiave di lettura originale e profonda del mondo contemporaneo, ma anche di una indicazione di marcia in mezzo alla nebbia dello scetticismo e del cinismo che attanaglia le nostre vite e ammorba i rapporti umani. Daniele Fazio, giovane filosofo siciliano, ha saputo illustrare magistralmente il pensiero filosofico di Karol Wojtyla, pensiero ignoto ai più, anche all’interno della realtà ecclesiale, mostrando una maturità intellettuale e un rigore morale ben superiori ai suoi 38 anni. Non ha mancato di illuminare lati poco conosciuti del papa filosofo, come quando, per mezzo della Segreteria di Stato Vaticana, fece chiedere per telefono al massimo studioso italiano di filosofia antica, il già menzionato Giovanni Reale, una copia della Metafisica di Aristotele con il commento del celebre studioso, opera cui molto teneva e che amava leggere e annotare di ritorno dai suoi viaggi apostolici.

Fazio, al quale lo scrivente, prima dell’istruttivo incontro, ha avuto modo di far conoscere, sia pure fugacemente, la città dell’Aquila che si apprestava a ricevere degnamente papa Francesco, ci ha fatto respirare, nel pomeriggio di domenica 22 agosto, insieme all’aria salubre di San Pietro della Jenca, quella delle alte vette dello spirito, sfatando il luogo comune che la filosofia è materia ostica o, peggio, chiacchiera inutile. Quel filosofo polacco che, diventato papa col nome di Giovanni Paolo II, esortava a non aver paura di aprire le porte a Cristo, non smette, con la sua testimonianza e il suo insegnamento, di ricordare, ai cristiani e a tutti gli uomini di buona volontà, di nutrire la passione per la verità, anche a costo, come si diceva, di andare contro corrente. Il cammino intellettuale da lui tracciato, segnato da un umanesimo integrale e perciò aperto alla trascendenza, è tutto da percorrere, ma c’è da avere fiducia, giacché è l’invito che viene da un uomo che ha cambiato il corso della storia del Novecento.

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