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POESIA. Garufi e la lacerazione dell’assenza

E’ la poesia dell’assenza, della lacerazione del proprio animo, della diaspora da se stessi, la memoria, della perdita di senso delle parole quella di Guido Garufi (marchigiano, Macerata 1949) in “Fratelli”,  Nino Aragno Editore, Torino 2016, pp. 116, euro 12,00, collana “Castalia” diretta da Giovanni Tesio, godibile la sua postfazione.

   Ma anche dello smarrimento cosmico, lo sgomento, la deriva del proprio io più intimo e segreto, e qui potremmo azzardare che sono sottintese le sovrapposizioni affatto casuali con un altro marchigiano: Leopardi.

   Darsi oggi la poesia come mission è impresa ardua e aspra: ogni orizzonte è vago, il relativismo dei valori ci sommerge, la volgarità tracima a ogni angolo, la bruttezza è un valore, il chiasso ci confonde, la memoria è formattata e viviamo sospesi in un presente irto “di cocci aguzzi di bottiglia” direbbe Montale.

   La stessa idea di poesia ha subìto un profondo mutamento semantico, come se non si fosse ancora ripresa dalle “provocazioni” – pur storicamente necessarie – degli sperimentalismi e il fiume cercasse un letto dove scorrere gaio sotto il sole delle nuove stagioni.   

   “Fratelli” è la tappa di un lungo, accidentato e tormentato cammino, che Garufi ha intrapreso tanto tempo fa. Trasfigurato nel testimone attento di un tempo complesso, anzi, barocco, la sua opera nell’insieme, nel corpus profondo, può essere letta anche (ma ogni codice di decodificazione è sempre soggettivo) come la password per accedere al puzzle della modernità, o quanto meno alla seconda metà dell’altro secolo e a questo scorcio del XXI.

   Scrivere versi non è facile quando ogni speranza è stata disidratata, ogni utopia insanguinata, ogni arcadia sventrata, ogni libertà formattata, ogni conquista sociale azzerata, in nome di una modernità che ci fa pagare costi terribili e ci rende sommamente infelici.

   Tutto è dèjà-vu, e la poesia, poi, da Saffo a Jhon Keats, Tagore e Holderlin, è cosa delicatissima, faccenda per pochi eletti (“brutte creature”), l’olimpo ha il “numero chiuso”. Il poeta al tempo del “like”, per coerenza, dovrebbe deporre gli arnesi e sbarrare la porta del laboratorio sovrastato com’è, e come siamo, dalla “balbettante cecità”.

   “Esiliato scriba”, Garufi non l’ha fatto, e di questo gliene siamo grati, poichè ci consente di frugare “tra le righe dei versi, dei non detti/ poiché questa è la poesia/ un nodo di memoria incandescente/ fiamma oltre la cenere…”. E lo è anche per noi. 

Francesco Greco

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